Don Abbondio non trova argomenti da opporre alle incalzanti e sempre
religiosamente concrete domande del cardinale. C'è un'altra accusa
contro di lui: quella di non avere sposato i due promessi ricorrendo a
pretesti. È tutto vero e lui, il curato, dentro di sé non ha altro da
dire che mandare qualche parola di condanna alle donne che non hanno
saputo frenare la loro lingua. Ma insomma, conclude il curato, cosa
avrei potuto fare in una situazione come quella? Prima, risponde il
cardinale, doveva fare il suo dovere e sposarli, poi avrebbe potuto
chiedere l'intervento del suo vescovo (la stessa cosa che aveva a lui
suggerito Perpetua). Ma Federigo
non vuol fare l'inquisitore: ha capito
di quale stoffa sia il curato e pur non perdonando lo comprende e lo
conforta a sperare e lo esorta alla resistenza in nome dei grandi valori
della religione: la vita nostra deve essere misurata e valutata non
sullo sfondo delle cose terrene ma di quelle eterne dell'aldilà.
Dall'Innominato intanto giunge al cardinale una lettera con cento scudi:
dovranno servire per la dote di Lucia. Ma questa, messa alle strette,
ora rivela alla madre il voto: la esorta alla pazienza e a mandare la
metà della somma a Renzo. Del quale Renzo nello Stato di Milano nessuno
sa nulla: neanche il cardinale riesce ad avere notizie precise. Il fatto
si è che la polizia dì Milano aveva incaricato quella di Venezia di
fare ricerca del noto delinquente. Renzo, avvertito, aveva per
suggerimento del cugino Bortolo cambiato residenza e cognome: si faceva
chiamare Antonio Rivolta.
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