Capitolo 3 - Fra Galdino

Un altro personaggio che in poche efficaci pennellate, benché sia solo "una meteora", Manzoni ci presenta è il buon fra Galdino.
Non è necessaria la descrizione del suo aspetto fisico: ci basta leggere come si presenta e quel che dice, per venire introdotti nel mondo pacifico e pacificante della religiosità popolare che fino a qualche tempo fa si poteva respirare anche nelle nostre contrade (prima che gli intellettuali organici alla Gramsci diffondessero in modo travolgente quell'ateismo pratico che ormai permea quasi tutti gli aspetti della cultura di massa).Rimaste sole e smesso l'abito della festa, Lucia ed Agnese parlano fra loro di quanto accaduto e di come affrontare la nuova imprevista situazione. La buona Agnese si compiace, sotto lo sguardo bonario dell'autore, dell'iniziativa suggerita a Renzo di consultare il dottor Azzecca-garbugli; e, dopo che ebbe ben parlato dei grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore", Lucia, che non si fa illusioni (anche se non sa ancora del fallimento della missione di Renzo), disse che bisognava veder di aiutarsi in tutte le maniere, e che sarebbe una gran bella cosa poter (…) far sapere (a Padre Cristoforo) quanto era accaduto. Le due donne si stanno chiedendo come raggiungere il confessore di Lucia, quando si presenta il buon Fra Galdino, un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente sulla spalla sinistra per la cerca delle noci.Il fraticello, nel candore e nella semplicità tipica di uno abituato a vivere nel mondo dolce (anche se non scevro da contraddizioni) di un convento, dove tutto viene accolto dalle mani di Dio e abbracciato senza troppe complicazioni, si mostra pieno di cordialità e del giusto grado di interesse nei confronti del matrimonio di Lucia; e, mentre la giovane va a prendere le noci per offrirle in elemosina, si lascia andare al racconto - chissà quante volte ripetuto, ma sempre bello e nuovo nella sua semplicità - del miracolo delle noci. Tale racconto era naturalmente parte integrante delle conoscenze del nostro fraticello, abituato a vivere e a nutrire anche la sua mente dell'essenziale. Ma non è privo di quella che noi potremmo definire consapevolezza culturale (ma chi la vive non ha bisogno di razionalizzarla con una definizione!) che lo porta a quel giudizio così vero e così bello sulla Chiesa, di cui lui si sente parte viva: Noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi.Attraverso questa definizione, posta in bocca all'umile personaggio, Manzoni comincia a presentarci la misteriosa vita della Chiesa, che, come buona madre, è ricettiva di tutto e distributrice di tutto; anzi potremmo dire che è aperta ad accogliere Tutto, il Tutto che riceve letteralmente dalle mano di Dio Padre e poi, con generosità, facendosi interprete e strumento di Lui, ridistribuisce ai suoi figli.Naturalmente Manzoni non si ferma al personaggio che non è poi tanto di pura fantasia, se pensiamo a quei fraticelli elevati alla gloria degli altari solo per essersi limitati a girare per città e paesi a raccogliere le elemosine, distribuendo in cambio serenità e accoglienza del cuore a tutti quelli che li accostavano. Egli infatti partendo dall'umile fraticello, descrive quella che era la condizione dell'ordine dei cappuccini nel '600 : Nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gli infimi, ed esser servito dai potenti, entrar nei palazzi e nei tuguri, con lo stesso contegno d'umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa un soggetto di passatempo e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l'elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino.Anche questa descrizione, che richiama con efficacia la perfetta letizia francescana, ci ripropone un mondo cui non siamo più avvezzi: per le strade vediamo ben altro normalmente, e sembra che gli stessi umili sai, seppure qualcuno ne vediamo, non dicano più nulla ai passanti distratti [da ben altro] e certamente disabituati a cogliere, nelle circostanze e negli incontri, dei segni di qualcosa di più grande: ormai è come se fossimo ottusi davanti alla possibilità di interrogarci realmente, con l'intelligenza e la ragione, su quel che accade: ci limitiamo a subire come bestie braccate o a reagire con violenza quando non possiamo evitare le contraddizioni. Eppure abbiamo bisogno di quell'umile serenità e dell'equilibrio che forse ancora albergano in quelle oasi di pace vera (che non esclude il dramma della lotta quotidiana per il bene) che sono appunto i conventi; proprio per reimparare a vivere, con un significato pacificante, anche [la nostra] l'umile quotidianità dei nostri ambienti.

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