I personaggi minori e l'incipit del capitolo
Il capitolo inizia con un ridimensionamento nella realtà dei
sentimenti e delle speranze di Lucia. Abbiamo la scena del distacco fra
i Promessi. Già la barca che urta la riva dà molto concretamente
l'idea del distacco dai pensieri, del ritorno alla realtà. Anche la
nuda panca su cui i tre fuggitivi siedono serve a suggerire l'idea
della stanchezza, della solitudine, della durezza della nuova realtà a
cui i fuggitivi sono ormai crudamente esposti.
Questa generale nota di distacco è presente anche nei personaggi
minori che compaiono all'inizio del capitolo nella funzione di uomini
fidati del padre Cristoforo: il barcaiolo ritira un po' bruscamente la
mano in cui Renzo voleva far scivolare una qualche moneta, il
barocciaio dal canto suo si rivela un buon uomo sicuramente, ma troppo
infatuato del mito dei potenti, che hanno sempre ragione; e il padre
guardiano, amico di fra Cristoforo, si rivela in realtà un ben povero
aiuto, visto che penserà subito alla "Signora", la monca di Monza,
appunto, che a lui appare in tutto il suo mito di elezione e di
nobiltà, e di cui egli non ha in realtà capito nulla. Il padre
guardiano ha anche una certa mondanità, che dimostra facendo un
discorso non molto adeguato all'abito che porta intorno alla bellezza
fisica di Lucia. Il suo tentativo di rimediare a questa gaffe non è
molto felice. Anche il padre guardiano si rivela animato dallo spirito
di asservimento ai grandi del mondo. In generale, dunque, si può dire
che il Manzoni ottiene qui un ridimensionamento dei temi alti e sublimi
con cui si era chiusa la fase borghigiana del romanzo, e prepara in
questo modo la narrazione della fase successiva, tutta caratterizzata
dalla crudele realtà di un mondo in cui imperversano il male e la
violenza: un mondo su cui l'artista Manzoni rifletterà con grande
intensità e passione e con un impegno che non gli avevamo ancora
conosciuto.
La vicenda di Gertrude
Nella vicenda di Gertrude, che, asservita ad un amante, favorisce il
ratto di una povera fanciulla, che sarà da lui consegnata al suo
persecutore, salvo il colpo di scena finale per cui la fanciulla passerà
dal terrore alla salvezza, si notano tutti gli elementi di una
letteratura romanzesca d'avventura, a sfondo giallo, quale poteva essere
cara a certa letteratura d'appendice d'oltralpe. Temi facili, con cui
avvincere il lettore ed ottenere un grande successo.
Ma il Manzoni, inutile dirlo, avverte immediatamente il pericolo di
scadere nella volgarità: si sofferma sulla cautela con cui l'Anonimo
tace i nomi, scherza sui dotti che darebbero la vita per conoscerli.
Possiamo però poi immediatamente cogliere che in realtà l'interesse del
Manzoni in tutta questa vicenda è un altro: non soffermarsi sullo
scandalo che pure è ampiamente presente nella vita e nella figura di
Gertrude, nella vita reale Maria Anna de Leyva, figlia di Virginia
Marino e d'un nobile spagnolo (don Martino de Leyva, figlio di Antonio
de Leyva, che fu governatore del ducato di Milano, nominato duca
d'Ascoli da Francesco Sforza, e feudatario di Monza, titolo quest'ultimo
che gli confermò anche Carlo V°): ma riflettere invece su dolorose
vicende rigorosamente storiche, e prendere una netta posizione contro
certe istituzioni, che usate in modo distorto, al solo scopo di servire
la vuota superbia di un casato e di un nome, possono causare dolore e
sofferenza e rovina. E' appunto il caso del maggiorascato e della
monacazione forzata, sua diretta conseguenza. Qui il Manzoni ci rivela
il suo sdegno per queste usanze, che, sradicate dal loro contesto
storico, e perpetuate senza più alcuna giustificazione, si rivelano
usanze barbariche e sostanzialmente anticristiane. Non è giusto metter
al mondo figli per poi negare loro la libera affermazione nella vita, a
vantaggio di un solo, che è destinato ad ereditare tutto il patrimonio.
Non è possibile imporre una vita di sacrificio e di rinuncia, adatta a
spiriti elevati e propensi alla santità, a uomini o donne normali,
incapaci di qualunque grandezza, e chiamati dalla natura a vivere una
vita normale.
In questa sdegnata polemica contro certi ordini religiosi potrebbe
sembrare che il Manzoni voglia assumere posizioni laiche ed
anticlericali. In realtà non è affatto così. Il suo dito si alza
implacabile a condannare non già il clero, ma quei potenti laici, quei
nobili, che, attraverso l'usanza di mandare in convento figli cadetti,
si servivano indegnamente del clero come di un mero strumento al loro
potere. E davano alla Chiesa non già anime disposte a servirla, ma
uomini e donne asserviti a ogni passione della terra, e soprattutto
intrisi di orgoglio, che è la prima negazione delle virtù cristiane. La
Chiesa era così asservita, anche se all'apparenza sembrava un
privilegio che i figli dei nobili entrassero a farne parte. Ancora una
volta, la causa prima di ogni male di questo Seicento pare al Manzoni
la distorta concezione dell'onore, quel puntiglio e quel falso orgoglio
che spingono i singoli ad agire in modo biecamente esteriore, senza
curarsi della sostanza umana ed etica delle loro azioni. Anche alla
base della "scommessa" di don Rodrigo c'è il punto d'onore: ma ora, nel
caso di Gertrude, vediamo come questo male possa risultare ancora più
devastante.
Il principe padre
Personaggio cupamente monocorde, totalmente animato dall'orgoglio della
casata, incapace di qualunque sentimento ispirato ad un'autentica
umanità, "assoluto" nel portare a termine il proprio criminale disegno
di sacrificare la figlia, piegato egli stesso nella servitù al mito del
suo potere, schiavo di esso più di quanto gli altri mostrino di
riverirlo e servirlo. Della vita non coglie nessun elemento positivo,
piacevole, e vive come un gretto miserabile burocrate, ministro della
sua dignità. Figura spietata, proprio perché totalmente priva di una
qualunque luce, di qualunque dubbio. Egli è affiancato dalla moglie e
dal principino primogenito, che assecondano il suo disegno senza altra
motivazione che quella di un volgare interesse personale. Altrettanto
asservito il coro dei servi, tutti obbligati ad ossequiare la volontà
del padrone. Questa situazione cupa e terribile, solo apparentemente
sfarzosa, di totale asservimento (e il principale - ricordiamolo - è
quello del Principe padre verso se stesso), è poi simmetricamente
presente anche nel convento, con la madre badessa, le monche
faccendiere, le quali si prestano senza minima esitazione a questa
terribile ingiustizia, di accogliere dentro il convento contro la sua
volontà la giovane Gertrude. In realtà tutte sono superficiali, incapaci
di un'autentica coscienza, che avrebbe loro consentito di percepire il
delitto tremendo di questa coartazione.
Gertrude
Se tragica è la figura del Principe padre, la cui vita è oppressa da un
destino che lo porta alla sopraffazione ed alla violenza, la tragedia
di un destino che porta al dolore dello spirito e alla condanna
dell'insoddisfazione perenne è tutta quanta presente in
Gertrude.
Ella ha ereditato dal padre tutti i suoi stessi difetti: è orgogliosa,
superba, smaniosa di primeggiare e di trarre i massimi piaceri dalla
vita, capace di dissimulare. Due esseri legati nel sangue e
nell'istinto, ma divisi da interessi opposti: e soccombe, ovviamente,
quello più debole, cioè Gertrude stessa. La quale dunque suscita
nell'animo del lettore (e del narratore) un'intensa pietà, che è tanto
più forte quanto più pronunciata è la reazione morale di abominio ed
orrore che finiamo col provare, insieme al narratore, per il Principe
padre (tanto che "non ci regge il cuore a
chiamarlo padre"). La pietà per la sofferenza di
un destino avverso è la vena che percorre queste pagine, splendide, del
romanzo. La poesia di Gertrude è tutta racchiusa in questa pietà. Ma
provare pietà, una dovuta pietà, per lei, non significa mandarla
assolta dalle sue colpe, che in sede morale ci sono, e sono anche
gravi. Gertrude infatti arriva al delitto, il sommo dei crimini, per un
percorso fatto di finzioni ed ipocrisie di ogni genere. Chissà quante
altre, nella sua condizione, avranno trovato il modo di farsi una
ragione, e di moderare la loro insoddisfazione, senza lasciarla
degenerare nella lussuria o nell'assassinio. Tuttavia, va ben
specificato, onde evitare fraintendimenti, che qui al Manzoni non
interessa il giudizio morale definitivo su Gertrude. Considerando
infatti la vicenda storica, che si concluse con un'espiazione durata
più di dieci anni, ed il fatto che anche l'Innominato è redento dopo
una vita trascorsa nel delitto, ci si potrebbe anche chiedere perché il
Manzoni non ci abbia voluto descrivere la redenzione e la salvezza
dell'anima di Gertrude. Ma al Manzoni interessa soprattutto suscitare
la pietà nel lettore, e, specularmente, il disgusto contro certi modi
educativi e certe istituzioni che pretendono di prendere a norma la
coartazione di un'anima, il soffocamento del libero sviluppo di una
personalità umana. E' precisamente qui che la valenza "educativa" del
romanzo tocca uno dei suoi momenti più alti e più straordinari.
Già
nella descrizione di Gertrude abbiamo la sensazione che il Manzoni
cerchi i modi narrativi specifici per questo superbo romanzo nel
romanzo. I sottili, quasi impercettibili tratti di scompostezza presenti
in Gertrude, che vengono a turbare un ritratto solo in apparenza
ispirato a criteri di bellezza classica, cioè fondata sull'armonia e
sulla regolarità, costituiscono un primo importante segnale del dramma
che si agita anche nell'anima della protagonista. Questa pagina è
un'altra prova superba dell'arte manzoniana, che ci fornisce qui un vero
ritratto romantico, ove la bellezza è appunto nell'inquietudine e
nell'irregolarità che emergono dal viso di Gertrude.
Capitolo VIII - Analisi e Commento
La Struttura
L'inizio del capitolo è la prosecuzione del precedente. Perpetua, visto che Tonio aveva finalmente i soldi da dare a don Abbondio, lo fa aspettare, per comunicare al suo padrone l'arrivo del giovane. In effetti il racconto si apre con don Abbondio intento a leggere in tutta calma il suo libro "seduto sul suo seggiolone". Questa calma verrà poi sconvolta nelle fasi successive del capitolo.
Vediamo di ricapitolarle:
Prima fase: si tenta il matrimonio a sorpresa. Tentativo fallito causa
L'inizio del capitolo è la prosecuzione del precedente. Perpetua, visto che Tonio aveva finalmente i soldi da dare a don Abbondio, lo fa aspettare, per comunicare al suo padrone l'arrivo del giovane. In effetti il racconto si apre con don Abbondio intento a leggere in tutta calma il suo libro "seduto sul suo seggiolone". Questa calma verrà poi sconvolta nelle fasi successive del capitolo.
Vediamo di ricapitolarle:
Prima fase: si tenta il matrimonio a sorpresa. Tentativo fallito causa
Padre Cristoforo - Descrizione
Se dalla debolezza di don Abbondio procedono i guai dei due promessi, il
Manzoni ristabilisce l'equilibrio con la bella ed eroica figura di
padre Cristoforo, modello di perfezione ideale. Per ben capire il
vecchio Cristoforo, modello di perfezione ideale. Per ben capire il
vecchio Cristoforo santo e ardente di carità, dobbiamo riportarci al
giovane e bellicoso Lodovico, poiché la Grazia corregge, modifica ed
eleva, nobilitandola, l'indole di un uomo, giammai l'annulla.
Riportandoci alla sua giovinezza noi lo troviamo di animo nobile,
franco, leale e generoso, inclinato a proteggere i deboli; indole
impetuosa ed orgogliosa, risponde con le armi agli insulti e alle
minacce del nobile soverchiatore, ma quando vede cadere il suo servo
fedele, Cristoforo, il giovane Lodovico lo fredda e si rifugia in un
convento di cappuccini. Ivi decide di farsi frate, e questa
determinazione è dovuta ad un intimo stato d'animo che matura per
l'intervento della Grazia.
Tuttavia la conversazione non crea in lui un nuovo carattere; indole,
sentimento e volontà restano intatto, ma dopo la tragedia egli consacra
tutte le sue forze ad espiare il suo fallo, e diventa, quindi, l'amico
dei buoni, il sostegno dei deboli, la provvidenza dei perseguitati.
Infatti dovunque compare è per far del bene; il suo dinamismo gli dà la
consapevolezza della superiorità della propria anima, aperta alla luce
della giustizia e della bontà, della comprensione umana e cristiana
verso i deboli. Il suo mirabile ardore di carità è l'essenza, la
caratteristica fondamentale della sua nuova vita. Egli diventa virtù
operante profondamente umana, e tanto più attiva quanto più viene a
contatto con le passioni che agitano questa nostra varia umanità, buona o
malvagia, trista o sofferente, supina al male o eroica nel bene. In
questa sua missione di bene, accettata con spirito altamente
francescano, l'animo del frate si innalza sublime a toccare le vette
dell'amore, fatto di pazienza e di carità, di forza e di sensibilità;
quanto più aderisce al multiforme realismo della nostra vita, tanto più
acquista una sua potenza interiore, che in ogni momento ei esprime in
umiltà. Padre Cristoforo è la figurazione del Bene; benedetto sempre
dalla folla che lo crede un santo; temuto dai malvagi a cui parla
schietto e fiero il linguaggio dell'accusa e della minaccia in nome di
Dio. tuttavia sempre memore dei suoi trascorsi giovanili, sa comprendere
e compatire le miserie umane; capisce Renzo innamorato e vittima di un
infame sopruso, le sue furie e cerca di soffocarne l'ira con gli
argomenti della fede e con le verità del Vangelo.
Allontanato da Pescarenico, comandato di recarsi a Rimini, affida alla
Provvidenza i suoi protetti, che più tardi rivede nel lazzaretto a
Milano con sua grande consolazione, e li benedice, confortato di vederli
prossimi alle nozze. Nell'ultimo addio stringe la mano di Renzo, che è
sempre il suo figliolo dopoché ha perdonato a don Rodrigo, colpito dalla
peste e agonizzante su di un misero giaciglio. Consapevole di essere
vicino alla grande ora del trapasso, questo eroe della carità, che tra
gli appestati sta per chiudere gli occhi sulle miserie del mondo, spera
di aprirli nella luce della beatitudine eterna. Di tutti i grandi
personaggi del romanzo, nessuno può rappresentare con maggiore spirito e
con più sublimità la rinunzia e il sacrificio, nessuno è così
trasfigurato dalla carità. Solo padre Cristoforo poteva capire la
bellezza dell'anima di Lucia; e il Manzoni accosta queste due creature
nella visione di Renzo in fuga da Milano: una treccia nera e una barba
bianca.
Don Abbondio - Descrizione
Don Abbondio è il primo personaggio presentato dal Manzoni, il curato
di un paesino sulle rive del Lago di Como. Questo personaggio lo vediamo
subito entrare nel vivo del romanzo con l’incontro dei bravi che gli
vietano di celebrare il matrimonio tra Lorenzo e Lucia.
L’autore coglie questa occasione per iniziare la sua descrizione tramite la scelta di un particolare paesaggio in correlazione con la sua personalità e il suo carattere. Tutte le sue mosse ispirano una grande tranquillità, la tranquillità di chi si sta godendo la propria passeggiata: la lettura dell'uffizio, il chiudere il breviario mettendovi l'indice della mano destra come segno per poi mettere questa dietro la schiena, lo spostare i ciottoli che sono un intralcio con il piede da una parte della strada, l'alzare oziosamente gli occhi intorno per posarli sui monti là vicino sono tutti gesti scanditi dall'abitudine, in una vicenda quotidiana dove ogni cosa è al suo posto e non c'è spazio per avvenimenti nuovi o sorprese, e solo qualche piccolo sasso può rappresentare un turbamento, peraltro subito scansato. Nonostante ciò, un giorno come un altro, avviene il fatto nuovo, quello che sconvolge quell'abitudinario andare di don Abbondio: l'incontro con i bravi. Inizialmente i gesti di don Abbondio sono contratti e rigidi, non più riposati e distesi come prima; gli occhi, cercano un soccorso o una via di fuga.
Il tempo, in questo momento, come in altre situazioni nel corso del romanzo, gli è amico, ma nello stesso tempo nemico.
Durante il dialogo la voce di don Abbondio è un balbettio che si agita fra scuse ritorte come accuse agli altri, adulazioni e complicità. Si capisce già che tipo di persona sia don Abbondio; egli è un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Questa metafora mette in rilevo la sua fragilità.
Il curato era sempre stato premuroso per la sua vita, per le sue abitudini tranquille; proprio per questo aveva abbracciato il sacerdozio, per entrare a far parte di una classe che lo avrebbe protetto e avrebbe mitigato le difficoltà della vita. Egli però non rifiuta gli ideali del cristianesimo, preferirebbe solo che siano di più comoda applicazione e più alla portata delle sue modeste capacità, ma, approfittando di ciò, finisce per cadere nella più assoluta viltà.
Il suo sistema consiste principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non può scansare: se si trovasse assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, starebbe col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro ch'egli non gli è volontariamente nemico. Don Abbondio critica anche duramente chi non è come lui e riesce a trovare sempre qualche torto in coloro che si sono messi contro i potenti. Soprattutto poi è contro i confratelli che aiutano i deboli. In questo modo , mostra la sua incapacità a risolvere i problemi e, provando a raggirarli, viene meno ai suoi doveri di sacerdote.
Due sono gli aspetti apparentemente contrastanti che però delineano il quadro generale della figura del curato: l’egoismo e il servilismo. Il primo è mostrato nei confronti dei più deboli, il secondo verso quelle persone contro cui non avrebbe potuto vincere.
Don Abbondio non è una vittima della paura e dell'angoscia, ma un eroe del quieto vivere, che si manifesta nella casa, luogo di pace e di rifugio.
Questo personaggio si presenta anche molto attaccato ai beni materiali e a volte è anche un po’ ignorante; la cultura è per lui uno svago piuttosto che un impegno.
Nonostante tutto è un personaggio di rilievo nel romanzo che esprime la condizione dell’uomo con i suoi difetti.
Le figure retoriche e le frasi celebri di don Abbondio sono:
L’autore coglie questa occasione per iniziare la sua descrizione tramite la scelta di un particolare paesaggio in correlazione con la sua personalità e il suo carattere. Tutte le sue mosse ispirano una grande tranquillità, la tranquillità di chi si sta godendo la propria passeggiata: la lettura dell'uffizio, il chiudere il breviario mettendovi l'indice della mano destra come segno per poi mettere questa dietro la schiena, lo spostare i ciottoli che sono un intralcio con il piede da una parte della strada, l'alzare oziosamente gli occhi intorno per posarli sui monti là vicino sono tutti gesti scanditi dall'abitudine, in una vicenda quotidiana dove ogni cosa è al suo posto e non c'è spazio per avvenimenti nuovi o sorprese, e solo qualche piccolo sasso può rappresentare un turbamento, peraltro subito scansato. Nonostante ciò, un giorno come un altro, avviene il fatto nuovo, quello che sconvolge quell'abitudinario andare di don Abbondio: l'incontro con i bravi. Inizialmente i gesti di don Abbondio sono contratti e rigidi, non più riposati e distesi come prima; gli occhi, cercano un soccorso o una via di fuga.
Il tempo, in questo momento, come in altre situazioni nel corso del romanzo, gli è amico, ma nello stesso tempo nemico.
Durante il dialogo la voce di don Abbondio è un balbettio che si agita fra scuse ritorte come accuse agli altri, adulazioni e complicità. Si capisce già che tipo di persona sia don Abbondio; egli è un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Questa metafora mette in rilevo la sua fragilità.
Il curato era sempre stato premuroso per la sua vita, per le sue abitudini tranquille; proprio per questo aveva abbracciato il sacerdozio, per entrare a far parte di una classe che lo avrebbe protetto e avrebbe mitigato le difficoltà della vita. Egli però non rifiuta gli ideali del cristianesimo, preferirebbe solo che siano di più comoda applicazione e più alla portata delle sue modeste capacità, ma, approfittando di ciò, finisce per cadere nella più assoluta viltà.
Il suo sistema consiste principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non può scansare: se si trovasse assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, starebbe col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro ch'egli non gli è volontariamente nemico. Don Abbondio critica anche duramente chi non è come lui e riesce a trovare sempre qualche torto in coloro che si sono messi contro i potenti. Soprattutto poi è contro i confratelli che aiutano i deboli. In questo modo , mostra la sua incapacità a risolvere i problemi e, provando a raggirarli, viene meno ai suoi doveri di sacerdote.
Due sono gli aspetti apparentemente contrastanti che però delineano il quadro generale della figura del curato: l’egoismo e il servilismo. Il primo è mostrato nei confronti dei più deboli, il secondo verso quelle persone contro cui non avrebbe potuto vincere.
Don Abbondio non è una vittima della paura e dell'angoscia, ma un eroe del quieto vivere, che si manifesta nella casa, luogo di pace e di rifugio.
Questo personaggio si presenta anche molto attaccato ai beni materiali e a volte è anche un po’ ignorante; la cultura è per lui uno svago piuttosto che un impegno.
Nonostante tutto è un personaggio di rilievo nel romanzo che esprime la condizione dell’uomo con i suoi difetti.
Le figure retoriche e le frasi celebri di don Abbondio sono:
- Don Abbondio non era un cuor di leone
- Non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno
- ll nostro Don Abbondio s'era dunque accorto, d'essere in quella società come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro
- Il coraggio uno non se lo può dare
Capitolo VIII - Riassunto
"Carneade! Chi era costui?" si sta chiedendo il curato, con un libretto
aperto davanti senza poter immaginare cosa gli sta per capitare.
Perpetua annuncia al curato l'arrivo di Tonio. Don Abondio è seccato
dell'ora, ma preoccupato dei suoi soldi, il curato l'autorizza a farlo
entrare.
La donna scende ad aprire ma si trova davanti anche Agnese che, con
l'astuta scusa di parlare delle calunnie sul conto del mancato
matrimonio, la trascina lontano.
Tonio e Gervaso possono entrare e, poco dopo, Renzo e Lucia li
raggiungono senza farsi vedere.
Si dà così l'avvio alla grande scena,
Capitolo VII - Riassunto
Fra Cristoforo appena entra in casa di Lucia racconta l’incontro con don
Rodrigo e il suo insuccesso che causa sconforto alle due donne e rabbia
in Renzo. Quest’ultimo inveisce contro don Rodrigo e il frate cerca di
placare l’animo del giovane senza alcun risultato. Appena padre
Cristoforo esce da casa di Lucia, Agnese e la figlia cercano di calmare
Renzo, il quale è talmente furioso che spaventa le due donne. Infine
Lucia accetta l’idea suggerita dalla madre di sposarsi clandestinamente,
perché anche lei in fondo vuole uscire da quella situazione tragica e
vuole dare prova del suo amore a
Agnese - Descrizione
Malgrado i suoi difettucci è una brava donna, onesta, pia, buona madre;
ha posto al centro dei suoi affetti la figlia, per la quale
sacrificherebbe tutto. E' una donna del popolo e a volte un po'
impulsiva e duperficiale, per quanto sincera e incapace di far del male.
Crede troppo a quella sua esperienza, che ha acquistata con l'età e la
mette a disposizione nei casi più intricati, senza pensare che la sua
esperienza è modesta e circoscritta. Dotata di buon senso, non sempre se
ne serve a tempo opportuno per ignoranza. E' anche astuta e disinvolta,
sicché non si lascia facilmente sorprendere, e mostra di sapersi
togliere d'impaccio in parecchie circostanze, anche davanti a persone
altolocate, quali Gertrude, il cardinale, l'Innominato, donna Prassede.
Chiacchiera volentieri, e Lucia conoscendo questo suo difetto, le tiene
per due volte nascoste cose delicate. E' accorta e poco sincera quando
infinocchia Perpetua per tenerla lontana dall'uscio di casa nella sera
del tentato matrimonio clandestino. Si mostra poco serena e piuttosto
vendicativa, quando lancia parole roventi e imprecazioni contro don
Rodrigo, non appena dalla figlia apprende, dopo la liberazione dal
castello dell'Innominato, quali sofferenze e quali incubi l'abbiano
sconvolta. Agnese ancora non sa perdonare a don Abbondio la sua viltà, e
non tace nulla al cardinale, con il quale si sfoga accusando
apertamente il curato d'aver mancato ai suoi doveri.
All'astuziam che è evidente allorché prepara il piano per trarre in
trappola don Abbondio, unisce una certa intelligenza nel conoscere e
pesare uomini e fatti. Quando spiattella la sua accusa contro il curato
al cardinale, e questi dice fermo che di tutto ciò chiederà conto a don
Abbondio, Agnele lo scusa, ma nello stesso tempo lo definisce alla
perfezione dicendo: "E' un uomo fatto così: tornando il caso farebbe lo
stesso". Ella poi ha una sua logica per spiegare le disavventure di
Renzo a Milano, infatti dice: "I poveri ci vuol poco per farli comparir
birboni", e il cardinale pratico di quanto avviene nel mondo, risponde:
"E' vero purtroppo!". Non si può dimenticare la stoccata tremenda ai
signori, allorché strapazzata dalla signora nel convento di Monza, dice
alla figlia: "I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un
altro, han tutti un po' del matto".
Alla fine la Provvidenza compensa le tre persone che avevano tanto
desiderato un'unione tranquilla, e dopo tante amarezze e patimenti,
Agnese vede coronato il sogno dei due protagonisti ed ella partecipa
alla loro felicità; nella nuova casa si diverte a portare in giro i
nipotini, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso dei bacioni.
Renzo - Descrizione
Renzo Tramaglino è il tipico rappresentante della gente umile,
laboriosa, schietta e onesta; di lui il Manzoni ammira la sensibilità
morale e religiosa, la fiducia nella Provvidenza, il senso quasi
istintivo della giustizia. Il Sapegno definisce Renzo "la figura più
lieta e franca, la più convincente che il Manzoni abbia saputo
inventare". Rimasto orfano fino dall'adolescenza, solo, senza guida
cresce laborioso e integro, pratica la virtù e l'onestà per quella legge
misteriosa che è in ogni uomo. Davanti allo spettacolo di violenze e di
soprusi reagisce e nell'anzia di giustizia non bada a ricorrere ai
mezzi più energici, per far cantare il curato che con pretesti assurdi
cerca di persuaderlo a rimandare il matrimonio. Renzoè un agnello, ma
esplode in minacce, quando si accorge di essere vittima della
prepotenza, dell'inganno e dell'infame capriccio di un tirannello. Il
suo carattere impulsivo lo spinge ad accarezzare bieche fantasie, ma
basta il ricordo di Lucia a ricondurlo a pensieri di mitezza, basta la
calda parola di padre Cristoforo perché l'ira ribelle del giovane si
plachi e l'animo si disponga al perdona.
Povero Renzo! L'ingiustizia e la vitalità degli uomini determinano il
crollo del suo sogno di sposo felice; l'impulsività e l'istintiva
reazione lo cacciano in una serie di guai, che iniziano nello studio del
dottor Azzeccagarbugli, per continuare nella notte degli imbrogli col
tentativo del matrimonio segreto e con la fuga, e che si fanno sempre
più gravi a Milano nella giornata della sommossa di San Martino, cui
segue l'avventura nell'osteria della luna piena, il triste risveglio il
mattino dopo, la fortunosa fuga e l'esilio nel territorio di Bergamo. Ma
in tutte le sue disavventure, anche in quelle che gli capiteranno più
tardi a Milano, quando ritorna per cercarvi Lucia, dimostra ora
prontezza e ardire, ora accorgimento e prudenza, ora coraggio e audacia.
Offeso e contrariato nel suo amore diventa un leone, si fa cattivo;
leso nei suoi diritti non sa contenersi, l'ira lo travolge, non si
rassegna supinamente ad essere vittima del male, dell'ingiustizia. Lucia
è in cima a tutti i suoi pensieri, né vuol sentire alcuna ragione,
quando gli viene scritto di mettere il cuore in pace per via del voto.
Nell'incontro con Lucia al lazzaretto Renzo, dopo la sua lunga odissea
di guai, dopo le sue furie, dopo le scapataggini, è come fuor di sé
dalla gioia e tocca il sublime: il dolore, l'amore gli mettono sulle
labbra parole semplici, ma di un profondo significato. Il suo discorso è
non solo il grido di chi nell'attesa ha sofferto, non solo il grido
potente della sua passione, ma la protesta contro la nuova ingiustizia
che gli si vuol far subire. Dal suo animo esasperato prorompono parole
spontanee, ma tali che assumono una solennità tragica; Lucia
profondamente scossa piange e prega.
Alla fine il nostro Renzo è felice. Ha avuto fiducia nella Provvidenza e
Dio lo ha premiato; questo uomo davvero onesto e veramente galantuomo
fra tanti galantuomini, ai quali il Manzoni lascia la maschera che si
sono costruita, ha finito coll'amare il latinorum per amore della sua
Lucia, quando finalmente divenne la sua sposa e la madre dei suoi figli.
Lucia - Descrizione
Lucia è il personaggio di cui si compiace l'autore; è la creatura buona,
modesta, pura, è insomma l'ideale della donna, conforme ai dettami del
cristianesimo. Bella nella sua semplicità non si rende conto dei
pericoli che ne possono insidiare l'innocenza in un secolo corrotto e
violento. Lucia suscita nel cuore di Renzo un amore così vivo che non
può dimenticarla; d'altronde il Manzoni la circonfonde di quell'affetto e
di quella fede, per cui se Lucia non è un'eroina, è tuttavia una donna
fuori dal comune: la sua bellezza, brevemente tratteggiata, è adorna di
quella virtù, di quella innocenza che traspare dal suo volto e dal suo
sorriso, e che impone rispetto per la delicatezza e finezza dei
sentimenti. Cresciuta alla scuola del suo confessore, padre Cristoforo,
assomiglia a lui per nobiltà di sentire e per la costanza nella pratica
del bene. Nei pericoli che la insidiano si abbandona fidente in Dio;
sicura dell'aiuto divino, si rassegna ai voleri della Provvidenza.
Per quanto Lucia possa sembrare una creatura debole ed ignara del mondo,
tuttavia a volte assume una personalità tutta sua, e sa mostrare una
forza quasi virile, di fronte alla quale è costretta a cedere la
faciloneria troppo pratica di Agnese. Anche quando si trova sola a
combattere con i suoi nemici, sa mostrare un suo carattere forte ed
agguerrito dal dolore e dalla fede, per cui il male non ha il
sopravvento sull'innocenza, dalla quale, per cui il male non ha il
sopravvento sull'innocenza, dalla quale anzi emana una luce così vivida
che non solo abbaglia il Nibbio, rotto a tutte le violenze, ma
addirittura colpisce e trasfigura l'Innominato, della cui conversione
proprio la debole e inerme fanciulla è la causa determinante.
Anche don rodrigo, il suo infame persecutore, sente un misterioso
rispetto per Lucia, tanto che comanda al Griso che non le si torca un
capello, e si arrovella il cervello pensando al modo come abbonirla.
Così don Abbondio, pur trovando da ridire su tutto e su tutti, nulla può
rimproverare a Lucia, dice soltanto che ella è nata per la sua rovina.
Malgrado i suoi continui trepidi pudori, propri di una creatura mite e
disarmata, non si può dire che Lucia sia un'anima tiepida nel suo amore
per Renzo; il Manzoni non ci presenta con frasi forti una passione
travolgente, ma con sobrietà ci rivela il suo amore profondo e delicato,
riservato e verginale. In molti passi del romanzo ciò viene confermato,
e appare chiaramente come anche dopo il voto il suo cuore faceva ancora
a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse. Ma dove
la tempesta scoppia improvvisa è nel lazzaretto, allorché tra lei e
Renzo si inizia quel dialogo concitato, in cui appare evidente il
tormento di Lucia, la quale si avvede che l'amore, che credeva assopito,
insorge nel suo animo con tale veemenza, che ricorre alla preghiera e
rivolgendosi alla Madonna col cuore straziato dice: "Vergine Santissima,
aiutatemi Voi! Voi sapete che, dopo quella notte, un momento come
questo non l'ho mai passato. M'avevate soccorso allora; soccorretemi
anche adesso!". Pertanto è lecitochiederci se possa dirsi fredda, o
tutt'al più tiepida, un'anima che vive due momenti così angosciosi della
sua esistenza: la notte nel castello dell'Innominato, e l'incontro con
Renzo al lazzaretto.
Dopo le nozze, Lucia, ormai moglie di Renzo e più tardi madre, si rivela
meno timida ed impacciata, consapevole dei suoi nuovi doveri, appare
donna pratica ed accorta, pur restando sempre la medesima, cioè
intimamente fedele ai suoi principi morali ed alle sue convinzioni
religiose.
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